Il grande Peter Brook ha detto che se un regista contemporaneo decide di rappresentare Shakespeare deve essere motivato da una grande idea, e nelle premesse l’idea che ha motivato il giovanissimo (appena venticinquenne) regista Alexander Zeldin, se non originalissima, era sicuramente di grande fascino e, soprattutto, aderente al progetto che da due anni cerca di inseguire il Napoli Teatro Festival Italia con l’interessante iniziativa di costituire una Compagnia Teatrale Europea, che a sua volta dovrebbe essere formata da attori provenienti dai più differenti paesi del nostro continente. Il progetto era quello di interpretare la faida tra i Capuleti e i Montecchi come quella tra comunità extracomunitarie presenti nelle metropoli italiane, con un focus speciale sui conflitti generazionali tra i cosiddetti adulti, impegnati a seminare la discordia in nome di un’antica appartenenza alla propria etnia, ed i giovani che, seppur in via di integrazione nella società multietnica di cui fanno parte, vengono utilizzati ora come armi ed ora come agnelli sacrificali dai padri, in una lotta sanguinosa ed infinita.
Certo, qualcuno avrebbe potuto dire che già nel 1957 “West Side Story”, il musical scritto da Arthur Laurents e Stephen Sondheim su musiche di Leonard Bernstain, aveva utilizzato l’immortale storia dei due giovani amanti per raccontare l’odio tra italoamericani e portoricani nell’Upper Side di New York, e che circa quindici anni fa il film di Baz Luhrmann, così come il bellissimo spettacolo firmato oltre un decennio fa dal nostro Antonio Latella, hanno sottolineato il tema del conflitto generazionale effettivamente espresso dalla tragedia; ma era indubbio che questi due temi portati in scena da una compagnia che veniva annunciata come formata per l’occasione da attori di madrelingua europea, ma provenienti da paesi extracomunitari e da un regista giovanissimo, solleticava le aspettative e l’interesse di organizzazione festivaliera, pubblico e critica.
Purtroppo tali aspettative sono andate, almeno in parte in parte, deluse. Resta inteso che se questo spettacolo fosse stato presentato in un contesto meno eclatante e prestigioso di un festival internazionale si sarebbe comunque plaudito alla seppur acerba creatività di un regista che ha compitato uno spettacolo che probabilmente avrebbe dato lustro alla programmazione scialba di più di un nostro teatro, ma ci appare evidente che le aspettative nei confronti di uno spettacolo d’apertura per sifatta manifestazione fossero di tutt’altra natura.
Quali sono, allora, i punti di questo spettacolo che non convincono? Cominciamo con il cast: l’annunciata compagnia di europei di origine extracomuniataria è in realtà composta per il 50% da italiani che fingono, nella recitazione, una provenienza magrebina, con risultati, in alcuni casi, che rasentano il parodistico. Inoltre il gap generazionale che dovrebbe essere alla base del dissidio fra padri e figli non è sottolineato dalla scelta degli attori, col risultato che, ad esempio, il giovane ed impetuoso Tebaldo è interpretato da un attore che appare coetaneo della balia, snella e scattante, la cui vecchiaia è più volte citata.
Ma dove lo spettacolo, rispetto alle premesse, appare particolarmente deludente è nella totale assenza di un vero lavoro drammaturgico che aiuti la regia a portare in scena i temi e le suggestioni che essa si propone. I copiosi e doverosi tagli apportati alla classicissima traduzione di Agostino Lombardi sono il minimo indispensabile a cui si è attenuto il pur giovane dramaturg Hussein Omar che ha collaborato con Zeldin a quella che ci si aspettava dovesse essere una riscrittura ed una riattualizzazione del testo, e che invece risulta, nei dialoghi, una operazione più retrò di una regia zeffirelliana.
Ad essa risponde una regia che, nel suo post-modernismo, risulta convenzionale e assolutamente non rivoluzionaria, a dispetto di una ventilata sperimentazione di cui non ravvisiamo nessuna traccia. Come non riusciamo a trovare nessuna differenza tra le appartenenze effettive dei due gruppi, entrambi qui rappresentati come di origine araba, col risultato di non rendere effettivamente quel conflitto tra europei ed immigrati di cui parlano le note di regia.Restano in positivo alcune belle suggestioni, suggerite dall’appropriata, anche se a volte predominante sul recitato, scelta musicale e dalla non originalissima ma affascinante idea scenografica, una scarna ambientazione che vede il palco nudo abitato da una carcassa d’auto i cui rottami sono incastonati sui velatini che scendono a suggerire i momenti di maggiore intensità. Tra gli interpreti si distingue senza dubbio il bravo Enzo Curcurù, che riesce a infondere a Romeo misuratamente impeto e ingenuità necessari a restituire al personaggio l’umus giovanile che la fisicità prorompente dell’attore potrebbe compromettere.
Di notevole impatto scenico e di riuscita emozionalità, infine, la messa in scena dell’epilogo, in cui il verso shakespeariano lascia il posto al dolore muto e straziante di Giulietta, facendo interrompere l’azione un secondo prima del suo risolutivo suicidio, senza lasciare nessuno spazio al ravvedimento finale da parte dei due gruppi rivali. Applausi e ovazioni del pubblico della prima hanno salutato il debutto, confermando che, al di là della discutibile effettiva realizzazione dei promettenti progetti registici, l’innegabile forza della scrittura del Bardo riesce sempre a creare emozione.